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libro ii - capitolo vi
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Quale romana storia agguagliare si potrebbe ai piú luminosi e forti tratti di essa, espressi coi sublimi versi di Virgilio? A far rinascere romani in Italia, quali insegnamenti piú alti e piú caldi si potevano mai lasciare ai venturi giovanetti, che le imprese dei Bruti, dei Fabii e dei Decii, da Virgilio pennelleggiate? E se i diciannove versi da lui consecrati ad eternare la nullitá di un Marcelluccio cesareo, col miglior senno consecrati gli avesse ad un Regolo o ad uno Scipione romani, la immensa e purissima gloria che gliene ridonderebbe da tanti secoli, la soddisfazione, piú cara ancora che la gloria, di avere con egregio stile laudata la egregia virtú, non gli sarebbero elle state piú nobile e desiderabil guiderdone che non quella disonorante mercede di non so quanti talenti da Livia donatigli? I versi eccellenti, consecrati a lodar la virtú, hanno la loro mercede in se stessi. Nessuno eroe romano ricevea mai guiderdone di danari dalla patria sua per aver fatto una nobile impresa; ed ardirebbe riceverla colui che, degnamente cantandola, si mostra degno e capace di, bisognando, eseguirla?

L’amore dunque della fama presente e non vera, spesso fa perdere, e talvolta scemar la futura, che sola è verace e durevole. I sommi scrittori lascino per tanto ai mediocri godersi questa picciola e momentanea fama, che è veramente la loro, poiché se ne appagano, e poiché dalla altrui potenza si ottiene. Ma essi, caldi proseguitori della vera fama che sta in loro stessi, e che dal vero e dal tempo soltanto si ottiene, nessun altro termine pongano alla loro virtuosa e nobile brama di giovar dilettando, se non se la infinita serie delle future generazioni. E sempre abbiano presente che un Omero ha dato e vita e fama perenne ad Achille; ma che nessuno Achille mai, non che un Omero creare, bastato sarebbe colle proprie forze a dar vita e perenne fama a se stesso.