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ii. del principe e delle lettere
 



di Sofocle, d’Euripide e di Lucano, il robusto conciso pensare e sentire di Tucidide e di Tacito?

Quindi a me pare che il principato permette, nudrisce, intende e assapora i mezzi poeti; cioè i molto descriventi narranti e imitanti, ma poco operanti e nulla pensanti; ma che degli interi poeti (quali alcuni ne sono stati, o essere possono in natura) non gli ebbe mai, né gli avrá che la sola repubblica.

Se dunque le lettere non sono ciò che per se stesse elle dovrebbero essere, il difetto non sta certamente nelle lettere. Altro limite non conoscono elle che il vero; e solo se lo propongono per fine. Ma e gli uomini che le trattano, e gli uomini che se ne prevalgono quando son trattate dagli altri, e gli uomini che, governando, o le lasciano fare, o le impediscono o le deviano; questi uomini tutti imprimono alle lettere il marchio, direi cosí, del loro proprio intimo valore. Quindi è che da un principe proteggente, da pochi e non liberi lettori, da molti autori tremanti o protetti (che sinonimi sono) si viene a procreare una tale specie di letteratura, che non eccedendo lo stato di convalescenza degli animi di costoro, dée perciò rimanere di gran lunga indietro dalla intera pompa delle umane intellettuali facoltá. E però ci convien pure, vergognando, tergiversando e sommessamente mormorando, dalle sole ben costituite repubbliche ripetere in ogni qualunque genere i piú alti sforzi dello ingegno dell’uomo.

Capitolo Decimo

Quanto il letterato è maggiore del principe, altrettanto diviene egli minore

del principe e di se stesso, lasciandosene proteggere.

La maggioranza del letterato sul principe consistendo, piú che in ogni altra cosa, nella intima conoscenza ch’egli ha del principe e di se stesso, non potrá veramente esser egli il maggiore, se per intima convinzione egli il maggior non si reputa.