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198 | antigone |
SCENA TERZA
Antigone, Emone, Guardie.
O perché almen, lui non somigli?
Emone Ah! m’odi. —
Questo, che a me di vita ultimo istante
esser ben sento, a te vogl’io verace
nunzio far de’ miei sensi: il fero aspetto
del genitor me lo vietava. — Or, sappi,
per mia discolpa, che il rifiuto forte,
e il tuo sdegno piú forte, io primo il laudo,
e l’apprezzo, e l’ammiro. A foco lento,
pria che osartela offrire, arder vogl’io
questa mia man; che di te parmi indegna,
piú che nol pare a te. S’io t’amo, il sai;
s’io t’estimo, il saprai. — Ma intanto (oh stato
terribil mio!) non basta, no, mia vita
a porre in salvo oggi la tua!... Potessi,
almen potessi una morte ottenerti
non infame!...
Antig. Piú infame ebberla in Tebe
madre e fratelli miei. Mi fia la scure
trionfo quasi.
Emone Oh! che favelli? Ahi vista!
Atroce vista!... Io nol vedrò: me vivo
non fia. — Ma, m’odi, o Antigone. Forse anco
il re deluder si potria... Non parlo,
né il vuol, né il vo’, che la tua fama in parte
né pur si offenda...
Antig. Io non deludo, affronto
i tiranni; e il sai tu. Pietá fraterna
sola all’arte m'indusse. Usar io fraude
or per salvarmi? ah! potrei forse oprarla
ove affrettasse il morir mio...