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atto quinto 269
a lui da fronte in atto minacciosi

venir suoi fidi stessi; Aronte, Fausto,
Cesonio, ed altri, in armi: Aronte grida:
«Un traditor sei dunque?»... Orribilmente
tutti d’ira avvampar, fremendo, i brandi
tutti snudare, e addosso a lui scagliarsi,
quindi è un sol punto. Icilio, a ferir presto
pria ch’a parlar, rapido a cerchio ruota
giá il fero acciaro in sua difesa: Aronte
cade primier; cadon quant’altri han core
d’avventarsegli. — Allor gridan da lunge
i piú codardi all’attonita plebe:
«Romani, Icilio è traditor: vuol farsi
in Roma re.» Suona quel nome appena,
che da tergo e da fianco ognun lo assale,
ed imminente è il morir suo.
Virg.o   Qual morte
per uom sí prode!
Numit.   Ma d’altrui non vale
brando a ferirlo; in se volge egli il suo:
e in morir, grida: «Io, no, regnar non voglio;
servir, non vo’. Libera morte impara,
sposa, da me...».
Virg.a   Ben io ti udia: me lassa!...
Amato sposo;... e seguirotti... Io vidi
ben tre fíate entro al tuo petto il brando
fisso e rifisso di tua mano;... io stesi
la non tremante mia destra al tuo ferro...
Ma... invan...
Numit.   La folla, e il suo ondeggiar, ritratte
ci ha dall’orribil vista, e quí sospinte.
Virg.o Cade Icilio, o Romani... Appio giá regna...
Appio Romani, Icilio al suo morir sol ebbe
i suoi seguaci, e la sua man, ministri.
Conscio di se, la obbrobríosa vita
volle in morte emendar: moría Romano;