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atto quarto 313
non poco io veggo; ma atteggiata sembra,

piú che di duol, d’ira e di rabbia... Oh cielo!
Chi sa, quell’empio con sue pessime arti
come aggirata avralla! ed a qual passo
indotta forse!... Or sí, ch’io tremo: oh quanti,
oh quai delitti io veggo!... Eppur, s’io parlo,
la madre uccido:... e s’io mi taccio?...


SCENA TERZA

Elettra, Agamennone.

Elet.   O padre,

dimmi: veduto hai Clitennestra?
Agam.   In queste
stanze trovarla io giá credea. Ma in breve
ella verravvi.
Elet.   Assai lo bramo.
Agam.   Al certo
io ve l’aspetto: ella ben sa, ch’io voglio
quí favellarle.
Elet.   O padre; Egisto ancora
sta in Argo.
Agam.   Il sai, che intero il dí gli ho dato;
finisce omai: lungi ei doman per sempre
ne andrá da noi. — Ma, qual pensiero, o figlia,
cosí ti turba? L’inquieto sguardo
attorno volgi, e di pallor ti pingi!
Che fia? D’Egisto mille volte imprendi
a parlarmi, e poi taci...
Elet.   Egisto lungi
veder vorrei; né so il perché... Mel credi,
ad uom, che aspetta forse il loco e il tempo
di nuocer, lunga ell’è una notte; suole
velo ad ogni delitto esser la notte.
Amato padre, anzi che il sol tramonti,