Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie, Vol. II, 1946 – BEIC 1727862.djvu/131

Da Wikisource.

atto secondo 125



SCENA TERZA

Demarista, Timoleone, Timofane.

Timof. Deh! vieni, o madre; tua mercé mi vaglia

del mio fratello a piegar l’alma alquanto...
Timol. Sí, vieni, o madre; e tua mercé mi vaglia
a racquistarmi un vero mio fratello.
Demar. Voi, l’un l’altro v’amate: or perché dunque
sturbar vostra amistá?...
Timof.   La troppo austera
sua virtú, non de’ tempi...
Timol.   Il desir suo,
superbo troppo, e in ver de’ tempi degno;
ma indegno appien di chi fratel mi nasce.
Demar. Ma che? sua possa, non da lui rapita,
potria dolerti? infra la plebe vile
indistinto vorresti, oscuro, nullo
chi la patria salvò?
Timol.   Che ascolto! Oh fero
di regia possa pestilente fiato!
Come rapido ammorbi ogni uom, che schermo
non fa d’alti pensieri! Oh come tosto,
perfida voglia d’impero assoluto,
entro ogni core alligni! — E il tuo le schiudi,
madre, tu pur? Tu cittadina, desti
la vita a noi fratelli e cittadini:
né vile allora tu estimavi il nome
di cittadina: in vera patria nati,
quí ci allattasti, e ci crescesti ad essa:
e accenti tuoi fra queste mura or odo,
conveníenti al labbro stolto appena
d’oríental dispotica reina?
Timof. Madre, tu il vedi: ei tutto a mal ritorce.
Odi, fallace sconsigliato zelo,
come si fa sordo di natura al grido.