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atto quinto 155
e il debbo a te.

Timol.   Gioja cotanta, or donde?
Forse hai tu infranto del tiranno il core?
La universal nobil sublime gioja
di libertade pristina mi apporti? —
Ah, no! che ancor ti veggio in volto sculta
regal superbia. Or, di che godi? Ahi folle!...
Demar. Di rivederti, d’abbracciarti io godo.
Piú non sperava, che i tuoi passi omai
rivolgeresti alla mia stanza...
Timol.   Stanza
d’inganno è questa, e di dolor, non tua;
o almen, non l’è di chi m’è madre. Or chiesto
m’hai forse quí, perch’io ten tragga? Vieni;
m’è assai gran palma il racquistar la madre;
del racquistar la patria poi, mi sia
felice augurio.
Demar.   ...O figlio, ognor persisti
duro cosí?...
Timol.   Donna, persisti ognora
di cosí picciol core? Altro hai che dirmi?
Demar. Dir ti vorrei; ma...
Timol.   Tu non l’osi; il veggio.
Ma assai piú giá, che udir non voglio, hai detto,
col tuo silenzio. E che? tu tremi?... Intendo:
regina sei: sei di tiranno madre.
Nulla a me che risponderti rimane.
D’albergar quí, di quí morir sei degna.
Uopo non t’era a ciò chiamarmi: il sai
ch’io non ti son piú figlio. — Echilo, vieni;
d’iniquo loco usciamo.
Demar.   Ah! no... T’arresta...
uscir non dei.
Timol.   Lasciami: uscirne io voglio,
né in eterno tornarvi. Esiglio, e morte,
ed onta, e strazj io voglio, anzi che serva