Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie, Vol. II, 1946 – BEIC 1727862.djvu/49

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atto quarto 43
non è mestier gran forza.

Almac.   Un ne commisi;
ma ben piú d’una in mente opra da forte
volgo; e fia prima lo strapparmi or questa
non mia corona dal mio capo, e darla
a te, che a te si aspetta; a qual sia costo
io difensor d’ogni tuo dritto farmi;
di chi t’opprime (e sia chi vuol) l’orgoglio
prostrar sotto i tuoi piè: quand’io secura
vedrotti in trono poscia, allor de’ tuoi
sudditi farmi il piú colpevol io,
e il piú sommesso, e umíle; udir mia piena
sentenza allor dal labro tuo; vederti
(ahi vista!) al fianco, in trono, a me sovrano
fatto Ildovaldo: e trar, finché a te piaccia,
obbrobriosi i giorni miei nel limo,
favola a tutti: e fra miseria tanta,
niuna serbare altra dolcezza al mondo,
che il pur vederti: — il non mai mio misfatto
avrò cosí, per quanto in me il potea,
espíato; e...
Romil.   Non piú; taci. Non voglio
trono da te: rendi a me pria l’amante,
che piú lo apprezzo, ed è piú mio. Se il nieghi,
me di mia man cader vedrai.
Almac.   — Sarammi
dunque, del viver tuo, pegno il tuo amante.
Di lui farò strazio tremendo, io ’l giuro,
se tu in te stessa incrudelisci. Bada...
giá troppo abborro il mio rival:... giá troppa
smaniosa rabbia ho in petto: a furor tanto
non accrescer furore... — Altro non chieggo,
che oprare in somma a favor tuo; te lieta
far di sua sorte, e del mio eterno danno...
E qual vogl’io mercé? l’odio tuo fero
scemarmi alquanto, e la mia infamia in parte...