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70 ottavia
Tigel. E queta io spero ogni altra cosa a un tempo,

ove mostrar pur vogli Ottavia al volgo
rea, quanto ell’è.
Ner.   Poich’io l’abborro, è rea,
quanto il possa esser mai. Degg’io di prove
avvalorare il voler mio?
Tigel.   Pur troppo.
Tener non puoi quest’empia plebe ancora
in quel non cal, ch’ella pur merta. Ai roghi
d’Agrippina, e di Claudio, è ver, si tacque:
tacque a quei di Britannico: eppur oggi
d’Ottavia piange, e mormorar si attenta.
Svela i falli d’Ottavia, e ogni uom fia muto.
Ner. Mai non l’amai; mi spiacque ognora e increbbe;
ella ebbe ardir di piangere il fratello;
cieca obbedir la torbida Agrippina
la vidi; i suoi scettrati avi nomarmi
spesso la udii: ben son delitti questi;
e bastano. Giá data honne sentenza;
ad eseguirla, il suo venir sol manca.
Roma saprá, ch’ella cessava: ed ecco
qual conto a Roma del mio oprare io debbo.
Tigel. Signor, tremar per te mi fai. Bollente
plebe affrontar, savio non è. Se giusta
morte puoi darle, or perché vuoi che appaja
vittima sol di tua assoluta voglia?
De’ suoi veri delitti in luce trarre
il maggior, non fia ’l meglio? e rea chiarirla,
qual ella è pur, mentre innocente tiensi?
Ner. Delitti... altri... maggiori?...
Tigel.   A te narrarli
niun uomo ardí: ma, da tacersi sono,
or che da te repudíata a dritto,
piú consorte non t’è? Stavasi in corte
l’indegna ancora; e dividea pur teco
talamo, e soglio; e si usurpava ancora