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atto quarto 93
Finché non giungon l’armi, io son quí dunque

minor d’ogni uomo? Or da ogni parte ho stretta
di diversi rispetti: ad uno ad uno,
costor che a un tratto io svenerei, m’è forza,
con lunghi indugj, ad uno ad un svenarli.
Poppea Oh quai punture al cor mi sento! oh quanto
meco mi adiro! Io son la ria cagione
d’ogni tuo affanno, io sola.
Ner.   A me piú cara
sei, quanto piú mi costi.
Poppea   È tempo al fine,
tempo è, Neron, ch’alto rimedio in opra
da me si ponga, poiché sola io ’l tengo.
Queta mai non sperar l’audace plebe,
finch’io son teco. Ah! generosa prole,
qual darle io pur di Cesari son presta,
Roma or la sdegna. Alla prosapia infame
di egizio schiavo un dí pervenga, è meglio,
la imperíal possanza. — Animo forte,
qual non m’avrò fors’io, sveller può solo
or da radice il male. — Ancor ch’io presti
velo, e non altro, al popolar tumulto
che altronde vien, pure in mio core ho fermo,...
ahi, sí, pur troppo!... e il deggio, e il voglio...
Ner.   Ah! cessa.
Tempo acquistar m’era mestier col tempo;
e giá ne ottenni alquanto. Omai, che temi?
Trionferemo, accertati...
Poppea   Deh! soffri,
che, s’io pure a’ tuoi piedi ora non spiro,...
l’ultimo addio ti doni...
Ner.   Oh! che favelli?
Deh! sorgi. Io mai lasciarti?...
Poppea   A te che giova
meco infingerti? Appien fors’io non veggo,
signor, che tu, sol per calmar miei spirti,