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atto quinto 109
e di vietarmen l’adito i soldati

non ebber core. — Al fin son teco. — Io vengo,
sposo, a salvarti, ove salvarti io possa;
o a morir teco io vengo.
Agide   Oh dolce sposa!...
Il cor mi squarci... Oh quanto il rivederti
mi è gioja,... e pena!... A conservar mia vita,
(ch’io ’l potrei, se il volessi, con la morte
di cittadini assai) l’amor tuo vero
trarmi or solo potria. Ma, il sai, che amarti
piú che la patria mia, donna, nol deggio,
e tu stessa nol vuoi. Me dunque lascia
morire; e tu, serbati in vita; i cari
pegni tu salva, i figli nostri...
Agiz.   Invano
di Leonida al fero odio sottrargli
io tenterei: barbaro padre; appieno
nella prospera sorte ora il conosco;
nell’avversa ingannommi. A me null’arme
riman, che il pianto; egli nol cura: i nostri
figli salvar dalla sua rabbia, o il puote
Sparta con l’armi, o nulla il può. — Ma padre
dovresti almen mostrarti; e, pe’ tuoi figli,
serbar tua vita...
Agide   Oh ciel! qual mai mi porti
terribil guerra in questo punto estremo?
Amo i figli, e tu il sai: ma, non ben certo
è il morir loro; e certo fia, che a rivi
dei cittadini scorrerebbe il sangue,
s’io di forza mi armassi. E questi, e quelli,
son figli miei; ma i cittadini sono
di un giusto re figli primieri. — O donna,
meglio di me, se sopravviver m’osi,
tu puoi salvarli. Quel sublime, a un tempo
tenero ardir, con cui seguivi il padre;
quello, con cui del mio destin ti eleggi