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120 sofonisba
né viver voglio, a tal son io, che morte

dar non mi possa?... Ma il fragor di trombe
giá mi annunzia Scipione. Eccolo. Oh vista!


SCENA TERZA

Scipione, Siface.

Scip. Resti ogni uomo in disparte. All’infelice

re fora insulto ogni corteggio mio. —
Siface, ove pur mai duol si potesse
allevíar di vinto re, mi udresti
parole or muover di pietá: ma nota
m’è del tuo cor l’altezza, a cui novella
piaga sarebbe ogni pietoso detto.
Quind’io non altro omai farò, che trarti
con la mia mano stessa i mal portati
ferri: sgravar questa tua destra, io ’l deggio.
Memore ancor son io, che questa destra,
e d’amistade e d’alleanza in pegno,
tu mi porgevi in Cirta. — Ma, che veggo?
Sdegni il mio ufficio? e torvo immoto il ciglio
nel suolo affiggi? Ah! se in battaglia preso
Scipion ti avesse, ei d’altri lacci avvinto
non ti avria, che de’ tuoi, col rimembrarti
la tua giurata fede. Or dunque, cedi
(ten priego) il ferreo pondo di te indegno;
cedilo a me; lo sconsolato viso
innalza; e in un, mira Scipione in volto.
Siface Scipione in volto? io ’l rimirai da presso,
con fermo viso, piú volte in battaglia:
arbitra d’ogni cosa or vuol fortuna,
ch’io piú mirar non l’osi. In questo campo
sol di Siface il morto corpo addursi
dai Romani dovea: ma, non è sempre
dato ai forti il morire; ed io quí prova