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atto primo 121
trista ne sono; ahi misero! — Dovute

quindi a me son queste catene; e quindi
son nel limo dannati ora i miei sguardi;
ch’io agli occhi mai del vincitor nemico
ergerli non potrei.
Scip.   Non è dei vinti
Scipion nemico; e benché a lui fortuna
solo finor l’aspetto lieto aprisse,
non per prosperi eventi ei va superbo,
come non mai vil per gli avversi ei fora. —
Cortese forza io far ti vo’. Disciolti
ecco i tuoi ceppi indegni: a solo a solo,
pari con pari, or con Scipion favella.
Siface Umano parli, e il sei. Se l’esser vinto
soffribil fosse a un re, dall’armi tue
esserlo, il fora. Ma, che posso io dirti,
che della prisca mia grandezza, e a un tempo
della presente mia miseria, degno
parer ti possa? E a te, che resta a dirmi,
ch’io giá nol sappia?
Scip.   Io? ti dirò, che grande,
che magnanimo tanto ancor ti estimo,
ch’io non dubito chiedere a te stesso
del tuo cangiarti la cagion verace.
Siface Fuor che a fedele esperto amico, il cuore
non suolsi aprir; ma o radi molto, o nulli,
dei tali ai re ne tocca. Indegno io forse
di amici veri, abbenché re, non era:
e, in prova, aprirti ora il mio core io voglio.
A te, nemico generoso, io ’l posso,
meglio che a finto amico. Odimi dunque. —
Roma è tua culla, ed Affricano io nasco:
tu cittadin d’alta cittade sei;
di numerosa nazíon possente
io giá fui re. Frapposto mare il tuo
dal mio terren partiva: io mai non posi