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132 sofonisba
minacce, no; deh! tu nol creder: tolga,

tolga il cielo, che mai del giusto sdegno
di Roma in te, ministro farmi io voglia!
Questo mio brando, che a riporti in seggio
valse, ah! no mai, col non minor tuo brando,
ch’or tante aggiunge alte vittorie a Roma,
al paragon, no, non verrá: la punta
pria volgeronne al petto mio: ma, dimmi:
son Roma io forse? un cittadin privato
io son di Roma, il sai; né manca ad essa
consiglio, ed armi, e capitani. A queste
spiagge altro duce, con ugual fortuna,
con maggior senno, e con minor pietade,
verrá in mia vece; e rammentar faratti
la mal serbata tua fede giurata.
Massin. Or, vuoi tu ch’uom, ch’è di Scipion l’amico,
al terror di futuro e incerto danno
doni ciò, ch’egli all’amistá pur niega?
Mal mi conosci. — Io ti domando, in somma,
se di Cirta espugnata col mio ferro,
co’ miei Numídi, e col lor sangue e il mio;
se di Cirta appartiene oggi la preda
a Roma, o a me: se sposa mia promessa,
da me sol Sofonisba or quí condotta,
s’ella è regina quí, s’ella m’è sposa,
o s’ella è pur schiava di Roma.
Scip.   — Ell’era,
e ancor (pur troppo!) di Siface è moglie.
Massin. T’intendo. Oh rabbia!... E speri tu?...
Scip.   La scelta,
Massinissa, a te lascio: inerme io sempre
mi aggiro quí; da’ tuoi Numídi farmi
svenar tu puoi; piantarmi in cor tuo brando,
tu stesso il puoi; ma, se tu me non sveni,
ir non ti lascio a tua rovina. Ov’abbi
cor di voler tu la rovina mia,