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atto secondo | 133 |
Roma, il senato, accusator mi udranno
di me stesso; dirò, che alla privata
amistá nostra e il ben di Roma, e il tuo,
sagrificar mi piacque: e in premio avronne
dell’amistá ch’ebbi per te non vera,
la vera infamia mia.
Massin. Scipion; m’è cruda
piú mille volte or l’amistá tua troppa,
che non lo foran le minacce, e l’armi...
Misero me!... mi squarci il cuor. — Ma, trarne
nulla può il dardo radicato e saldo,
che amor v’infisse. Alla insanabil piaga
dittamo e tosco il tuo parlare a un tempo
mi porge: ahi! questo è martir nuovo... — O ingrato
fammi del tutto, e qual nemico intero
trattami; o meco, qual pietoso amico,
servi al mio mal... Pianger mi vedi; e il pianto
rattener puoi? — Che dico? ahi vil! che ardisco
dire al cospetto io di Scipione? — Insano
finor mi hai visto, or non piú, no. — Fra breve
saprá Scipion, di Roma il duce, a quale
immutabil partito al fin si appiglia
il re numida Massinissa.
Scip. Ah! m’odi...
SCENA TERZA
Scipione.
a se stesso non vuolsi; a mal suo grado
salvar si debbe: è d’alto core; il merta.