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atto terzo 135



SCENA SECONDA

Siface, Sofonisba.

Siface Alto stupor pinto hai nel volto, o donna,

nel rivedermi? — Esser doveva io spento:
benigna in ciò la fama ebbi, ma avversa
la fortuna, pur troppo!
Sofon.   Oh inaspettata
terribil vista! Or mi è palese appieno
l’orrendo arcano...
Siface   Infra te stessa parli?
A me favella. Or, mirami; son quello,
quel tuo consorte io son, che, a te posposto
e regno e onor, privo d’entrambi, avvinto
infra romani lacci, ancor su l’orlo
della bramata tomba il piè rattengo,
per saper di tua sorte.
Sofon.   Oh detti!... Ahi! dove,
dove mi ascondo?...
Siface   Ah! di vergogna, e a un tratto
di morte l’orme (oh cielo) impresse io veggio
sul tuo smarrito volto? Assai mi parla
il tuo silenzio atro profondo: io leggo
dentro al tuo cor la orribile battaglia
di affetti mille. Ma, da me rampogna
niuna udrai tu: benché oltraggiato, e in ceppi,
e da tutti deserto, ancor pur sento
di te piú assai, che non di me, pietade.
Conosci or, donna, s’io t’amai. — Mi è noto,
che il comando del padre, e l’odio acerbo
che per Roma hai nel petto, eran tue scorte
al mio talamo sole; amor, no mai,
tu per me non avevi, lo stesso adduco
le tue discolpe, il vedi. Io so, che d’altra