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atto quarto 147
certo partito egli è il morir; né tolto

ai forti è mai: ma a tutti noi, per ora,
necessario ei non è. Scipion deluso,
sol coll’alba sorgente il fuggir nostro
saprá; fors’egli umano e giusto in core,
rispetterá miei dritti: ad ogni guisa,
mercé i ratti corsier, sarem coll’alba
lontani assai. Ma, se inseguirci pure
si attenta alcun, giuro che il brando io pria
a Scipio istesso immergerò nel petto,
che a lui rendervi mai. Questa mia spada,
che me salvò giá tante volte; questa,
onde il mio regno e in un l’altrui riebbi,
non fia bastante a porvi entro a Cartago
in salvo entrambi? Or, deh! per poco cedi;
cedi, o Siface, alla fortuna: in sommo
puoi ritornare ancor; né cosa al mondo
tu mi dovrai. Nemici fummo; e in breve,
di bel nuovo il saremo; il sol periglio
di cosa amata al par da noi, fa muto
l’odio e lo sdegno in noi. Supplice m’odi
parlarti; in te la tua salvezza è posta.
Ma se pur crudo il tuo nemico abborri
piú che non ami la tua donna, intera
abbine almen pria di morir vendetta.
Ecco ignudo il mio brando; in me il ritorci. —
O me uccidi, o me segui.
Siface   Oh Massinissa!...
Infra il bollor della feroce immensa
tua passíon, raggio di speme ancora
traluce a te; vinto non sei, né inerme,
né prigioniero: or tu d’altr’occhio quindi
le umane cose miri. Ma, si asconde
sotto serena imperturbabil fronte,
entro il mio cor, piú strazíato assai
del tuo, si asconde tal funesta fiamma,