Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie postume, 1947 – BEIC 1726528.djvu/233

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atto quarto 227
un favellar piú alquanto al mio simile,

sí ch’io piú lieve intendati; ten prego.
L’Inv. D’Adamo il figlio, al tuo parlar ravviso.
Non bastò dunque al padre tuo di farsi
egli sbandir, con sua vergogna tanta
dal bel terrestre Paradiso, ov’io
con infiniti altri mi albergo? a lui
no non bastò ciò dunque? al proprio figlio
ei volle inoltre ogni notizia torre
di un tanto ben perduto, e torgli a un tempo
al racquistarlo ogni possibil via?
Caíno Oh! che mi narri? un Paradiso in terra
evvi; e in bando mandatone fu Adamo?
Ed egli ad un suo figlio un ben sí immenso
cela, e impedisce?
L’Inv.   Ingiusto e duro padre,
al proprio figlio invidia egli quel bene,
ond’ei mostrossi indegno. Oltre alle rive
lá del gran fiume, io stavami con questa
dolce mia madre: ed io di lá vedea
(che il tutto vede e sa, chi quivi alberga)
te fuggiasco, lasciata la capanna
del padre tuo, venirne errante...
Caíno   Or, come
di me sai tutto, ed io?
L’Inv.   Pari non siamo.
A noi beati abitator perenni
di quella opposta spiaggia, il tutto è lieve:
ivi lontana o non saputa cosa,
o impossibile a noi, son nomi ignoti:
ivi in gran copia siam, fratelli e suore,
e figli e padri; ivi ad ogni uom si aggiunge
una, com’io; qual vedi Eva congiunta
viver col padre tuo. — Pietá mi prese
dell’ignoranza tua; quíndi a incontrarti
io fin quí m’inoltrai. Sol che ti attenti