Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie postume, 1947 – BEIC 1726528.djvu/154

Da Wikisource.
148 alceste seconda
una madrigna: dell’amor che immenso

ci avvampa entrambi, un tal sospetto è indegno.
Ah, non è questo il mio timor, te in vita
or dopo me lasciando. Altro non temo,
se non che tu, troppo ostinato e immerso
nel rio dolore, a danno de’ tuoi figli,
e del tuo regno e di te stesso a danno,
di questa impresa mia furar non vogli
a tutti il frutto, o non curando, od anco
abbrevíando i giorni tuoi. Ma freno
ti saran questi. Or mira, in man ti pongo
questa tua figlia e mia; perenne immago
della fida sua madre, a fianco l’abbi,
ad essa vivi: al tuo cessar, deh, pensa,
non rimarria chi degno eletto sposo
a tempo suo le desse. E a questo nostro
leggiadro unico erede, a questa speme
del Tessalico impero, al cessar tuo
chi potria mai del ben regnar prestargli
e i consigli e gli aiuti e l’alto esemplo?


SCENA SECONDA

Feréo, Alceste, Adméto, Coro, e figli d’Adméto.

Alces. Vieni, o padre, tu pure; a noi ti appressa;

mira il tuo figlio misero, cui manca
e voce e senso e lena. Or per lui tremo;
e lasciarlo, pur deggio. Al di lui fianco
tu starai sempre, osservator severo
d’ogni suo moto. — Io taccio: omai compiuto
quasi è del tutto il sagrificio mio.
Feréo Figlio, abbracciami: volgi, al padre volgi,
deh tu gli sguardi.
Adméto   Al padre? e il sei tu forse?
Feréo Oh ciel, che ascolto! e nol sei tu pur anco?