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atto terzo 35
Fu degl’invidi Numi un don funesto

l’iniquo amor, per cui di lor men grande
n’apparsi in terra... Al fin saprò dal petto
strapparlo con la vita. Io nulla chiedo
oggi per me: ma inorridisco, e fremo
solo in pensar, che Cleopatra avvinta
in Roma un dí... grande ti credo al pari
della tua gran fortuna. —
Augus.   Antonio, serba,
serba i tuoi giorni a piú onorevol fine:
né piú rivolgi il tuo pietoso ciglio,
a rimirar dei traditor la sorte.
Anton. Non vive Antonio vinto, e infin che vive
pensier non muta, e allor ch’amò davvero,
fin nei singulti estremi egli ama ancora.
Andrá Cleopatra in Roma al tuo trionfo?
Augus. Pietosa Roma, ai debellati regi
rende talora il mal difeso trono.
Io di Roma non son, che un cittadino,
che l’onor n’assicura a mano armata:
il senato, quell’arbitro del mondo,
del destino d’Egitto arbitro adesso...
Anton. Basta. T’intendo; e fra i tuoi labbri, i nomi
di cittadin, di Roma, e di senato,
nomi giá sacri un giorno, e vani in oggi,
sono un mentito velo, e vi si asconde
sotto pietoso ammanto un reo tiranno.
Crudel, trionfa: oggi implorai mercede,
tu la negasti, e l’onta mia s’accrebbe;
ma non perciò vedrassi unqua soggetta
d’Augusto in Roma quella donna istessa,
che dell’amor d’Antonio un dí fu degna.
Dalla necessitá, Romana anch’ella,
saprá schernirti, e trionfar d’Augusto.