Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie postume, 1947 – BEIC 1726528.djvu/47

Da Wikisource.

atto quarto 41
e le grida acquetar del popol fello,

che, temerario, in Roma, a chi lo regge,
cieco ricusa d’ubbidire ancora.
Se ciò lice sperar da sorte amica,
avventurato il giorno, in cui, deposto
per mia mano a’ tuoi piedi un tanto scettro,
creder potrò, che tu non abbi a sdegno
di dividerne meco il dolce peso.
Piú nobil meta nei lavor di Marte,
dacché combatte, non attinse Augusto. —
Ma son, pur troppo, quei felici tempi
da me lontani ancor: non sono estinti
i nemici d’Augusto, e quei di Roma;
e mi sapranno intorbidar la pace.
Antonio è vinto, è fuggitivo, è inerme,
ma Antonio è vivo; e Antonio serba in petto
odio crudele, inimicizia atroce
contro di me: piú generoso Augusto,
piú magnanimo, e grande, ei non oscura
della vittoria il lustro: alla vendetta
ha chiuso il cor: ogni vendetta è indegna. —
Di te pur troppo il reo destin compiango,
se dei servire ai suoi feroci affetti:
Antonio, forse, non è qual tu il credi,
di te verace amante; e tu, regina,
tu piangerai d’averlo amato, un giorno.
Cleop. Sí, che pur troppo amai Antonio ingrato;
ma piú non l’amo, e ad emendare il fallo
di giá m’accinsi: e non vendetta, od odio
mi spinge in oggi a cancellar l’errore,
ma la ragion, l’alta ragion dei regi.
Il suo morir, giá da gran tempo, apparve
util non sol, ma necessario a questo
depredato da lui, misero regno;
ed ora poi, che il viver suo potrebbe
di Roma riaprir le antiche piaghe,