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EPOCA TERZA. CAP. XIV. 237


avrei mai potuti fare essendo in piena salute. [1773] In questo modo passai cinque giorni interi in cui non mi vennero inghiottiti forse venti o trenta sorsetti di acqua presi così a contrattempo di volo, e spesso immediatamente rigettati. Finalmente nel sesto la convulsione allentò, mediante le cinque e le sei ore il giorno che fui tenuto in un bagno caldissimo di mezz’olio e mezz’acqua. Riapertasi la via dell’esofago in pochi giorni col bere moltissimo siere fui risanato. La lunghezza del digiuno e gli sforzi del vomito erano stati tali, che nella forcina dello stomaco fra quei due ossuccl che la compongono vi si formò un tal vuoto, che un uovo di mezzana grandezza vi potea capire; nè mai poi mi si ripianò come prima. La rabbia, la vergogna, e il dolore, in cui mi facea sempre vivere quell’indegno amore, mi aveano cagionata quella singoiar malattia. Ed io, non vedendo strada per me di uscire di quel sozzo laberinto, sperai, e desiderai di morirne. Nel quinto giorno del male, quando piò si temeva dai medici che non ne ritornerei, mi fu messo intorno un degno cavaliere mio amico, ma assai piò vecchio di me, per indurmi a ciò che il suo viso e i preamboli del suo dire mi fecero indovinare prima ch’egli parlasse; cioè a confes-