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336 saggio sopra la necessità

della lettura degli scrittori e de’ migliori libri che ne dieno le regole. Con tutto il suo ingegno e il suo studio commette in parlando di non piccioli errori; per esempio si serve della parola cité, dicendo la cité de Rome, dove conviene dire la ville de Rome; dice le pont nouveau, e va detto le pont neuf; e cade in simili altri barbarismi, dando di che ridere a un Francese col quale s’intrattiene. Si mette costui a correggerlo; Orazio a difendersi. Replica il Francese, e a tutte le autorità addotte in suo favore dal poeta latino egli va contrapponendo le leggi sovrane dell’uso corrente, che è il vero padron delle lingue,

quem penes arbitrium est, et ius, et norma loquendi.

E Orazio, sconfitto dalle sue proprie armi, ammutolisce, e colle trombe nel sacco se ne torna a raggiungere i suoi compagni nella beatitudine dell’Eliso.

Ma senza andar dietro agli apologhi e alle finzioni, di tale verità ne siamo testimonj noi medesimi in Italia. E non si vede egli bene spesso le scritture di quei nostri italiani i quali, senza voler badare a quella favella che è nelle bocche degli uomini, hanno volti unicamente i loro studj a imitare gli antichi autori di nostra lingua, sono piene di affettazione, di parole insolite e diciamo anche d’improprietà, sono alle persone di gusto uno isfinimento di cuore? E già credettero dover fare, per bene scrivere in italiano, qualche dimora in Firenze l’Ariosto, il Caro, il Chiabrera, il Guarino, il Castiglione e il Bembo, tuttoché nati e cresciuti nel bel mezzo d’Italia.