Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/193

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purgatorio - canto viii 187

     Poi, vòlto a me: «Per quel singular grado
che tu déi a colui che sí nasconde
69lo suo primo perché, che non li è guado,
     quando sarai di lá da le larghe onde,
dí a Giovanna mia che per me chiami
72lá dove a li ’nnocenti si risponde.
     Non credo che la sua madre piú m’ami,
poscia che trasmutò le bianche bende,
75le quai convien che, misera! ancor brami.
     Per lei assai di lieve si comprende
quanto in femmina foco d’amor dura,
78se l’occhio o ’l tatto spesso non l’accende.
     Non le fará sí bella sepoltura
la vipera che ’l Melanese accampa,
81com’avría fatto il gallo di Gallura».
     Cosí dicea, segnato de la stampa,
nel suo aspetto, di quel dritto zelo
84che misuratamente in core avvampa.
     Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo,
pur lá dove le stelle son piú tarde,
87sí come rota piú presso a lo stelo.
     E ’l duca mio: «Figliuol, che lá su guarde?»
E io a lui: «A quelle tre facelle
90di che ’l polo di qua tutto quanto arde».
     Ond’elli a me: «Le quattro chiare stelle
che vedevi staman son di lá basse,
93e queste son salite ov’eran quelle».
     Com’ei parlava, e Sordello a sé il trasse
dicendo: «Vedi lá ’l nostro avversaro»;
96e drizzò ’l dito perché lá guardasse.
     Da quella parte onde non ha riparo
la picciola vallea, era una biscia,
99forse qual diede ad Eva il cibo amaro:
     tra l’erba e’ fior venía la mala striscia,
volgendo ad ora ad or la testa, e ’l dosso
102leccando come bestia che si liscia.