Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/415

Da Wikisource.

paradiso - canto xxi 409

     La mente, che qui luce, in terra fumma;
onde riguarda come può lá giúe
102quel che non puote perché ’l ciel l’assumma».
     Sí mi prescrisser le parole sue,
ch’io lasciai la quistione, e mi ritrassi
105a dimandarla umilmente chi fue.
     «Tra’ due liti d’Italia surgon sassi,
e non molto distanti a la tua patria,
108tanto, che’ tuoni assai suonan piú bassi,
     e fanno un gibbo che si chiama Catria,
di sotto al quale è consecrato un ermo,
111che suole esser disposto a sola latria».
     Cosí ricominciommi il terzo sermo;
e poi, continuando, disse: «Quivi
114al servigio di Dio mi fe’ sí fermo,
     che pur con cibi di liquor d’ulivi
lievemente passava caldi e geli,
117contento ne’ pensier contemplativi.
     Render solea quel chiostro a questi cieli
fertilemente; e ora è fatto vano,
120sí che tosto convien che si riveli.
     In quel loco fu’ io Pietro Damiano,
e Pietro Peccator fui ne la casa
123di Nostra Donna in sul lito adriano.
     Poca vita mortal m’era rimasa,
quando fui chiesto e tratto a quel cappello
126che pur di male in peggio si travasa.
     Venne Cefás e venne il gran vasello
de lo Spirito Santo, magri e scalzi,
129prendendo il cibo da qualunque ostello:
     or voglion quinci e quindi chi i rincalzi
li moderni pastori, e chi li meni,
132tanto son gravi! e chi di retro li alzi;
     cuopron de’ manti loro i palafreni,
sí che due bestie van sott’una pelle:
135oh pazienza che tanto sostieni!»