Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/46

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40 la divina commedia

     E giá venia su per le torbid’onde
un fracasso d’un suon pien di spavento,
66per che tremavano amendue le sponde,
     non altrimenti fatto che d’un vento
impetuoso per li avversi ardori,
69che fier la selva e senz’alcun rattento
     li rami schianta, abbatte e porta fuori;
dinanzi polveroso va superbo,
72e fa fuggir le fiere e li pastori.
     Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
75per indi ove quel fummo è piú acerbo».
     Come le rane innanzi a la nemica
biscia per l’acqua si dileguan tutte,
78fin ch’a la terra ciascuna s’abbica,
     vid’io piú di mille anime distrutte
fuggir cosí dinanzi ad un ch’al passo
81passava Stige con le piante asciutte.
     Dal volto rimovea quell’aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
84e sol di quell’angoscia parea lasso.
     Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro: e quei fe’ segno
87ch’i’ stessi queto e inchinassi ad esso.
     Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne a la porta, e con una verghetta
90l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.
     «O cacciati del ciel, gente dispetta,»
cominciò elli in su l’orribil soglia
93«ond’esta oltracotanza in voi s’alletta?
     Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non può il fin mai esser mozzo,
96e che piú volte v’ha cresciuta doglia?
     Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
99ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo».