Pagina:Alle porte d'Italia.djvu/313

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la rocca di cavour 299

neanche lo potè pigliare di viva forza Carlo Emanuele, malgrado la gran voglia che ne aveva, e il grosso esercito vittorioso che teneva in pugno: dovette costruire nel piano cinque fortini, e aspettare che al presidio non rimanesse più nè acqua nè pane. E l’una e l’altra volta i difensori uscirono con l’onore delle armi. Poveri cadaveri ambulanti! Doveva essere uno strazio d’inferno l’idea di morir digiuni lassù, pigiati in quella tetra bicocca, frecciati a traverso alle feritoie da quell’aria viva dei monti che mette nel corpo dell’uomo la voracità della fiera, e sentirsi torcere le viscere dalla fame e dalla sete vedendo giù nel piano fumar le cucine dei vivandieri, passare i carri carichi di pane, e correre i rigagnoli argentini in mezzo ai campi! Perchè dovevano veder tutto di lassù, come sulla palma della mano: le corsie degli accampamenti, l’interno dei padiglioni, i giochi e le risse dei bivacchi, e Carlo Emanuele che appuntava i cannoni come un capitano d’artiglieria, e Antonio d’Olivares che discuteva con lui, per distoglierlo, come fece, dal tentare l’assalto, tagliando l’aria tutti e due con dei gesti vigorosi, corrispondenti a de’ sonori frasoni spagnuoli, intercalati di Por Dios e di Por Vida mia e di Mal rayo me parta, che facevan rattenere il fiato allo Stato maggiore.



Nel mezzo dello spianato del castello c’è una piccola cisterna rotonda, quasi tutta piena di