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passavano composti, con una cert’aria di curiosità riflessiva, come di gente venuta da lontano. — Viva Auronzo! si gridava da ogni parte. Viva Pieve di Cadore! — Viva Perarolo! — Viva Lorenzago! — E a quei nomi alzavan la faccia, e guardavan qua e là, come se dovessero veder qualche cosa dei loro paesi; ed eran facce che dicevano una vita di sacrifizi e di ardimenti: facce di cavatori di rame dei monti d’Agordo, di conduttori di zattere del Piave, di boschieri, abituati a parlarsi a cenni nello strepito assordante delle cascate d’acque e dei venti, e a giocar la vita ogni giorno fra i torrenti e le rupi; facce d’antichi scottoni, che da fanciulli avevan portato il cibo ai boscaiuoli, a prezzo di pericoli mortali e di stenti terribili, visi dai lineamenti risentiti e gravi, che nella loro freschezza giovanile raccontavan già la storia di molte emigrazioni oltre l’Alpi, di fatiche, di privazioni di molti anni accumulate in pochi mesi, per metter da parte e riportare a casa qualche scudo; visi d’una bellezza loro propria, irradiata dall’anima indomita, che faceva correr la mano al saluto reverente prima che all’applauso festoso. Era il penultimo battaglione, eran del Cadore; la folla li costrinse due volte a fermarsi; una tempesta di fiori cadde su quelle larghe spalle e su quelle braccia di ferro; le acclamazioni copersero il suon delle trombe. La signora Penrith, consapevole della particolare simpatia dei concittadini pel Cadore, si credette obbligata a mostrare una commozione insolita, ricordando con rotte parole la sua gita a Pieve, alla casa del Tiziano, con-