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141 ANNALI D'ITALIA, ANNO XLI. 142

popolo lo mettesse in brani. Mandato anche da Cherea un centurione o tribuno, appellato Giulio Lupo, alle stanze di Cesonia moglie di Cajo, la trucidò insieme colla figliuola Giulia, per cui Cajo avea fatto varie pazzie con dichiararla anche figliuola di Giove. E tale fu il fine di Cajo Caligola, fine corrispondente ad un conculcatore di tutte le leggi umane e divine, e che troppo tardi si accorse d’essere non un Dio, ma un miserabil mortale. Abbattute poi furono le sue statue, rasato il suo nome dalle iscrizioni, e trattata la sua memoria come di un pubblico nemico.

Portata la nuova della morte di Caligola all’anfiteatro, dove buona parte del popolo dimorava in allegria godendo il pubblico divertimento, incredibil fu lo spavento di tutti; e tanto più perchè i soldati pretoriani attorniarono colle spade nude quel luogo, e si durò gran fatica a trattenerli che non cominciassero a far vendetta dell’estinto principe sopra quegl’innocenti. Subito che poterono in tanta confusione i consoli Sentio Saturnino e Pomponio Secondo, operar qualche cosa, inviarono tre compagnie di essi pretoriani che si trovarono ubbidienti per la città, affinchè impedissero i tumulti. Raunato poscia il senato nel Campidoglio, corsero colà gli altri soldati del pretorio, chiedendo con alte grida che si cercassero gli uccisori. Ma affacciatosi Valerio Asiatico, uno dei primi senatori, ad un balcone, gridò forte: «Piacesse a Dio, che l’avessi ammazzato io!» Queste sole parole fecero impression tale ne’ soldati che si ritirarono. Fu poi dibattuto nel senato quel che fosse da fare in sì pericolosa congiuntura. Il console Saturnino, secondo che scrive lo storico Giuseppe, fece una bella aringa con rammentar tutti i mali patiti sotto Tiberio e Caligola principi saguinarii ed assassini del pubblico, e conchiudendo che s’avea da ricuperare la libertà oppressa dai precedenti imperadori; ma senza prendere ben [p. 142]le misure necessarie per sì importante risoluzione. In fatti, non tardò molto a scoprirsi la vanità di questo disegno. Tiberio Claudio Druso Germanico, comunemente conosciuto col nome di Claudio fra gl’imperadori de’ Romani, figliuolo fu di Nerone Claudio Druso, e fratello di Germanico Cesare, per conseguenza zio paterno di Caligola. Uomo di poco senno e sommamente timido, benchè avesse studiato le arti liberali, era tenuto in concetto piuttosto di stolido, e perciò sprezzato e deriso da tutti. Forse anche egli mostrava d’essere più di quel che era. E questo fu la sua fortuna, perchè salvò la vita sotto Tiberio e Caligola, i quali vedendolo addormentato e dappoco, nè avendo apprensione alcuna di lui, si ritennero dal levarlo dal mondo. Tiberio nondimeno il lasciò sempre nell’ordine de’ cavalieri. Cajo suo nipote, benchè fosse dipoi qualche volta tentato d’ucciderlo, pure l’avea alzato al grado di senatore ed anche al consolato. Trovavasi egli in compagnia o poco lungi da Caligola, allorchè i congiurati se gli avventarono addosso. Tutto spaventato corse ad appiattarsi dietro ad una tappezzeria, da dove ascoltava lo strepito di chi andava e veniva, e co’ suoi occhi vide le teste d’Asprenate e degli altri uccisi staccate dai busti1. S’aspettava anch’egli la morte, quando in passare uno de’ soldati per nome Grato e scoperti i suoi piedi, il tirò per forza fuori della tappezzeria. Cadde in ginocchioni Claudio e gli dimandò la vita; ma il soldato riconosciutolo per quel che era, non solamente l’animò, ma gli diede anche il titolo di mio imperadore. E menatolo a’ suoi compagni, che stavano disputando di quel che s’avesse a fare in quel contingente, siccome per la memoria di Germanico suo fratello l’amavano, tutti concorsero a riceverlo per imperadore. Pertanto postolo in una lettiga, sulle loro spalle il portarono al castello pretoriano,

  1. Suet. in Claudio, cap. 10. Dio., lib. 60. Joseph., Antiq., lib. 19.