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215 ANNALI D'ITALIA, ANNO LX. 216

notte bruciato, secondo il costume d’allora, il suo corpo e vilmente seppellito. Ed ecco dove andò a terminare la sbrigliata ambizione di questa donna, figliuola di Germanico, nipote del grande Agrippa, pronipote d’Augusto, moglie e madre d’imperadori. Le iniquità da lei commesse per far salire il figlio al trono riportarono questa ricompensa dallo stesso suo figlio, mostro d’ingratitudine e di crudeltà.

Fece susseguentemente Nerone una bella scena, mostrandosi inconsolabile per la morte della madre, e dolendosi d’aver salvata la vita propria colla perdita della sua; giacchè voleva che si credesse aver ella inviato Agerino per ucciderlo, e ch’ella dipoi si fosse uccisa da sè stessa. Lo stesso ancora scrisse al senato con aggiungere una filza d’altre accuse contro la madre per giustificar sè medesimo, e con dire fra l’altre cose1: Ch’io sia salvo, appena lo credo, e non ne godo. Perchè quella lettera o era scritta da Seneca, o si riconobbe per sua dettatura, fu mormorato non poco di questo adulator filosofo, il quale compariva approvatore di sì nero delitto. Mostrò il senato2 di credere tutto: decretò ringraziamenti agli dii, e giuochi per la salvata vita del principe; e dichiarò il dì natalizio di Agrippina per giorno abbominevole. Il solo Publio Peto Trasea, senatore onoratissimo, dappoichè, fu letta quella lettera, uscì dal senato, per non approvare nè disapprovare, il che poi gli costò caro. Ma Nerone dopo il misfatto3 si sentì gran tempo rodere il cuore dalla coscienza; sempre avea davanti agli occhi l’immagine dell’estinta madre e gli parea di veder le furie che il perseguitassero colle fiaccole accese. Nè il mutar di luogo e l’andare a Napoli ed altrove, servì a liberarlo dall’interno strazio. Neppure s’attentava di ritornar più a Roma, temendo d’essere[p. 216] in orrore a tutti. Ma gl’ispiravano del coraggio i bravi cortigiani, facendogli anzi sperare cresciuto l’amore del popolo per aver liberata Roma dalla più ambiziosa e odiata donna del mondo. In fatti, restituitosi alla città, trovò anche più di quel che sperava, movendosi e grandi e piccoli per paura di un sì spietato principe a fargli onore. Andò dunque come trionfante al Campidoglio, persuaso ch’egli potea far tutto a man salva, dacchè tutti, o perchè l’amavano, o perchè avviliti, non sapeano se non adorare i di lui supremi voleri. Affettò ancora la clemenza con richiamare a Roma Giunia Calvina, Calpurnia, Valerio Capitone e Licinio Gabalo, esiliati già dalla madre. Ma in questo medesimo anno col veleno abbreviò la vita a Domizia sua zia paterna, con occupar tutti i suoi beni posti in quel di Baja e di Ravenna, prima ancora ch’ella spirasse. Quivi alzò de’ magnifici trofei, che duravano anche ai tempi di Dione4. Mirabil cosa nondimeno fu, che parlando molti liberamente di tali eccessi, ed uscendo non poche pasquinate, pure, egli, benchè dalle sue spie informato di quanto succedea, ebbe tal prudenza da dissimular tutto, e da non gastigar alcuno per questo, paventando di accrescere, altrimente facendo, il romore nel popolo.


Anno di Cristo LX. Indizione III.
Pietro Apostolo papa 32.
Nerone Claudio imperad. 7.


Consoli


Nerone Claudio Augusto per la quarta volta, e Cosso Cornelio Lentulo

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Dicendo Svetonio, che Nerone tenne questo consolato per soli sei mesi nelle calende di luglio dovettero succedere a lui e al collega due altri consoli. Il nome loro ci è ignoto. Alcuni han sospettato che fossero Tito Ampio Flaviano e Marco Aponio Saturnino, perchè da TacitoTacito son

  1. Quintilianus, lib. 8 Instit.
  2. Tacitus, lib. 14, e. 12.
  3. Sueton. in Neron., c. 34.
  4. Dio., lib. 61.