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237 ANNALI D'ITALIA, ANNO LXV. 238

complici. Allo intendere sì numerosa frotta di congiurati, saltò tal paura addosso a Nerone, che mise guardie dappertutto, e nè pur si teneva sicuro in qualunque luogo ch’egli si trovasse.

Vien qui Tacito annoverando tutti i congiurati, e il loro fine. Molti furono gli uccisi, e fra gli altri Caio Pisone, capo della congiura, e Lucano poeta; altri, con darsi la morte da sè stessi, prevennero il carnefice; ed alcuni ancora la scamparono colla pena dell’esilio. Fra gli altri denunziati v’entrò anche Lucio Anneo Seneca, insigne maestro della stoica filosofia; ma che, se si avesse a credere a Dione1, macchiato fu di nefandi vizii d’avarizia di disonestà e di adulazione. Di lui parla con istima maggiore Tacito, scrittore alquanto più vicino a questi tempi. Consisteva tutto il suo reato nell’essere stato a visitarlo nel suo ritiro Antonio Natale, e a lamentarsi perchè non volesse ammettere Pisone in sua casa, e trattare con lui. Al che avea risposto Seneca, non essere bene che favellassero insieme; del resto dipendere la di lui salute da quella di Pisone. Trovavasi Seneca nella sua villa, quattro miglia lungi di Roma, e mentre era a tavola con due amici, e con Pompea Paolina sua moglie cara, arrivò Silvano tribuno d’una coorte pretoriana ad interrogarlo intorno alla suddetta accusa. Rispose con forti ragioni, nulla mostrò di paura, e parlò senza punto turbarsi in volto. Portata la risposta a Nerone, dimandò, il crudele, se Seneca pensava a levarsi colle proprie mani la vita. Disse Silvano di non averne osservato alcun segno. Farà bene, replicò allora Nerone, ed ordinò di farglielo sapere. Intesa l’atroce intimazione, volle Seneca far testamento, e gli fu proibito. Quindi scelto di morire collo svenarsi, coraggiosamente si tagliò le vene, ed entrò nel bagno per accelerare l’uscita del sangue. Dopo aver lasciati alcuni bei documenti agli amici, morì. Anche la moglie Paolina volle accompagnarlo [p. 238]collo stesso genere di morte, e si svenò, ma per ordine di Nerone fu per forza trattenuta in vita, ed alcuni pochi anni visse dipoi, ma pallida sempre in volto. Le straordinarie ricchezze di Seneca si potrebbe credere gl’inimicassero l’ingordo Nerone, se non che scrive Dione ch’egli le avea dianzi cedute a lui, per impiegarle nelle sue fabbriche. Ancorchè il console Vestinio non fosse a parte della congiura, pure si valse Nerone di questa occasione per levarlo di vita, e lo stesso fece d’altri ch’egli mirava di mal occhio.

Andò poscia Nerone in senato, per informar quei padri del pericolo fuggito e dei delinquenti2; e però furono decretati ringraziamenti e doni agli dii, perchè avessero salvato un sì degno principe; ed egli consecrò a Giove vendicatore nel Campidoglio il suo pugnale. Capitò in questi tempi a Roma Cesellio Basso, di nascita Africano, uomo visionario, che ammesso all’udienza di Nerone, gli narrò come cosa certa, che nel territorio di Cartagine in una vasta spelonca stava nascosa una massa immensa d’oro non coniato, quivi riposta o dalla regina Didone, o da alcuno degli antichi re di Numidia. Vi saltò dentro a piè pari l’avido Nerone, senza esaminar meglio l’affare, senza prendere alcuna informazione, e subito fu spedita una grossa nave, scelta come capace di sì sfoggiato tesoro, con varie galee di scorta. Nè d’altro si parlava allora che di questo mirabil guadagno fra il popolo. Per la speranza di un sì ricco aiuto di costa, maggiormente s’impoverì il pazzo imperadore, perchè si fece animo in ispendere e spandere in pubblici spettacoli e in profusion di regali. Ma con tutto il gran cavamento fatto dal suddetto Basso, nè pure un soldo si trovò; e però deluso il misero, altro scampo non ebbe per sottrarsi alle pubbliche beffe, che di togliere colle sue mani a sè stesso la vita. Ma se mancò a Nerone questa pioggia

  1. Dio., lib. 61.
  2. Tacitus, Annal., lib. 16, cap. 1.