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303 ANNALI D'ITALIA, ANNO LXXIV. 304

tempo. Probabilmente Muciano, che men di Vespasiano amava Elvidio, il volle tolto dal mondo con questa frode. E fu appunto in tale occasione1 ch’esso Muciano persuase all’imperatore di cacciar via da Roma tutti i filosofi, e massimamente coloro che professavano la filosofia stoica, maestra della superbia. Imperciocchè, oltre al rendersi da questa gli uomini grandi estimatori di sè stessi e sprezzatori degli altri, i seguaci di essa altro non faceano allora che declamar nelle scuole, e fors’anche in pubblico, contra dello stato monarchico, e in favore del popolare, svergognando una scienza che dee inspirare l’ossequio e la fedeltà verso qualsivoglia regnante. E tanto più dovea farlo allora Elvidio, che ai precedenti tiranni era succeduto un buon principe, quale ognun confessa che fu Vespasiano, e la sua vita il dimostra. Fra gli altri andarono relegati nelle isole Ostilio e Demetrio filosofi anch’essi. Portata al primo la nuova del suo esilio, mentre disputava contra dello stato monarchico, maggiormente s’infervorò a dirne peggio, benchè dipoi mutasse parere. Ma Demetrio, siccome professore della filosofia cinica, o sia canina, che si gloriava di mordere tutti, e di non portare rispetto ai difetti e falli di chicchessia2 dopo la condanna vedendo venir per via Vespasiano, nol salutò, e neppur si mosse da sedere, e fu anche udito borbottar delle ingiurie contro di lui. Il paziente principe passò oltre, solamente dicendo: Ve’ che cane! Nè mutò registro, ancorchè Demetrio continuasse a tagliargli addosso i panni; perciocchè avvisato di tanta tracotanza, pure non altro gli fece dire all’orecchio se non queste poche parole: Tu fai quanto puoi perch’io ti faccia ammazzare: ma io non mi perdo ad uccidere can che abbaia. Per attestato di Dione, il solo Caio Musonio Rufo, cavaliere romano, eccellente filosofo stoico, [p. 304]non fu cacciato di Roma: il che non s’accorda colla Cronica di Eusebio, da cui abbiamo che Tito, dopo la morte del padre, il richiamò dall’esilio.


Anno di Cristo LXXIV. Indizione II.
Clemente papa 8.
Vespasiano imperadore 6.


Consoli


Flavio Vespasiano Augusto per la quinta volta, e Tito Flavio Cesare per la terza.


A Tito Cesare, che dimise il consolato, succedette nelle calende di luglio Domiziano Cesare suo fratello. Terminarono in quest’anno Vespasiano e Tito il censo, o sia la descrizione de’ cittadini romani ch’essi aveano già cominciato come censori negli anni addietro. E questo fu l’ultimo de’ censi fatti dagl’imperadori romani. Scrive Plinio il vecchio3, che in tale occasione si trovarono fra l’Apennino e il Po molti vecchi di riguardevol età. Cioè tre in Parma di cento venti, e due di cento trenta anni; in Brescello uno di cento venticinque; in Piacenza uno di cento trentuno; in Faenza una donna di cento trentadue; in Bologna e Rimini due di cento cinquanta anni, se pure non è fallato, come possiam sospettare, il testo. Aggiugne essersi trovati nella Regione ottava dell’Italia, ch’egli determina da Rimini sino a Piacenza, cinquantaquattro persone di cento anni; quattordici di cento dieci; due di cento venticinque; quattro di cento trenta; altrettanti di cento trentacinque, o cento trentasette, e tre di cento quaranta. Dal che probabilmente può apparire qual fosse tenuta allora per la più salutevol aria d’Italia. Se in altre parti d’Italia si fossero osservate somiglianti età, non si sa vedere perchè Plinio l’avesse taciuto. Circa questi tempi4 mancò di vita Cenide, donna carissima a Vespasiano, liberta di Antonia, madre di Claudio Augusto. Avea Vespasiano avuta per

  1. Dio., lib. 66.
  2. Sueton., in Vespasiano, cap. 13.
  3. Plinius, Histor. Natural., lib. 7, cap. 49.
  4. Dio., lib. 66. Sueton., in Vespasiano, cap. 3.