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Pagina:Annali d'Italia, Vol. 1.djvu/98

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135 ANNALI D'ITALIA, ANNO XL. 136

a maggiormente farlo impazzire. Gran tempo era, che questa legger testa si riputava più che uomo, ed ambiva gli onori divini. Già avea comandato che in Mileto, città dell’Asia, si fabbricasse un tempio in onor suo. Un altro ancora se ne fece alzare in Roma; e si trovarono intieri popoli, e massimamente gli Alessandrini, che a questa ridicolosa divinità davano gl’incensi. Perchè i Giudei, divoti del solo vero Dio, non vollero consentire a tanta empietà, patirono di molti guai, e meraviglia fu che non gli sterminasse tutti. Le pazzie che fece Cajo, per sostenere questa sua vana opinione di deità, raccontate da Dione, sono innumerabili. Sulle prime si pareggiava ai semidei, vestendosi talora, come Ercole, Bacco ed altri simili. Passò ad uguagliarsi agli dii, e a gareggiar con Giove stesso. Al vederlo un dì assiso sul trono in abito di Giove, un ciabattino nativo della Gallia non potè contenere le risa. Avvedutosene Cajo, e chiamatolo, gli domandò chi credeva egli che fosse: Un gran pazzo, con gran sincerità rispose il buon uomo. E pur Cajo, che per tanto meno avrebbe fatto morire un intero senato, male non fece a costui, perchè più sopportava la libertà dei plebei che dei grandi. La via che tenne Lucio Vitellio, padre dell’altro che fu imperadore, per salvare la propria vita, fu la seguente. Richiamato egli in quest’anno dalla Soria, nel cui governo come proconsole s’era acquistato non poco onore, con ripulsare Artabano re de’ Parti, venne a Roma. Cajo, parte per invidia alla di lui gloria, parte per paura di un personaggio sì generoso, avea già fissata la di lui morte. Subodorato questo suo pericolo1, Vitellio prese il ripiego dell’adulazione e d’impazzire coi pazzi; e presentatosi davanti a lui con abito vile, e col capo velato, come si faceva ai falsi dii, se gli prostrò a’ piedi con dirotte lagrime, dicendo, che non v’era altri che un Dio [p. 136]par suo capace di perdonargli, promettendo di fargli de’ sagrifizii se potea conseguir la sua grazia. Non solamente Caligola gli perdonò, ma il tenne da lì innanzi per uno de’ suoi principali amici. E Vitellio trovata così utile l’adulazione, continuò poi sotto Claudio Augusto a valersene con perpetua infamia del suo nome. Intanto non mancarono a Roma altri spettacoli della pazza crudeltà di Caligola, accennati da Dione e da Svetonio, non potendosi abbastanza esprimere a quante metamorfosi fosse suggetto quel cervello bisbetico, volendo oggi una cosa, domani il contrario; ora amando ed ora odiando le medesime persone; prodigo insieme ed avaro; sprezzator de’ suoi dii, e un coniglio, qualora udiva il tuono; talora perdonando i gran falli, ed altre volte gastigando colla morte i minimi; e così discorrendo; tutti caratteri d’uomo a cui s’era intorbidato più d’un poco il cervello. Fu anche creduto, che Cesonia sua moglie con dargli una bevanda amatoria l’avesse conciato così. La qual poscia fra le carezze che le faceva il consorte, ne sentiva anche ella delle belle: imperocchè baciandole il collo, più volte Cajo le dicea: Oh che bel collo, che subito che me ne venga talento sarà tagliato! Ma sopra tutto tenne egli saldo il costume di far morire chi de’ grandi non gli mostrava assai affetto: con avere sempre in bocca il detto di Azzio tragico poeta: Oderint, dum metuant. Mi odiino quanto vogliono, purchè mi temano. Un simile tirannico motto fu in uso a Tiberio2.


  1. Sueton., in Vitellio, cap. 2.
  2. Sueton. in Tiber., cap. 59.