Pagina:Apollonio Rodio - Gli Argonauti, Le Monnier, 1873.djvu/103

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libro ii. 77

     325Venne già di me sposa alle mie case.
Tanto ei diceva; e gran pietà di lui
     Sentì ciascuno, e più di tutti i due
     Di Borea figli. Essi dagli occhi il pianto
     Tergendo, a lui si fêr più presso, e Zete,
     330Presa al misero vecchio in man la mano:
     Oh infelice, gli disse, altr’uom non penso
     Ch’esser possa di te più sventurato!
     D’onde tanti malanni? Offesa hai certo
     Fatta agli dei, con mal consiglio usando
     335Dell’arte tua divinatrice; ed essi
     Son contra te sì acerbamente irati.
     Ben di giovarti è in noi desìo, ma turba
     Nostra mente il timor, che a noi quest’opra
     Non veramente imponga un dio: solenni
     340Gli sdegni son degl’immortali numi
     Verso i terrestri. Ond’è che noi le Arpie
     Non cacceremo, anco il bramando assai,
     Se non giuri tu pria, che a noi per questo
     Non corrucciati si faran gli dei.
345Sì disse, e il vecchio alzò vêr lui le aperte
     Vuote occhiaje, e rispose in questi accenti:
     Pace! di ciò non conturbarti, o figlio.
     N’attesto Apollo che insegnommi l’arte
     Del profetar; la rea sorte crudele
     350Che mi colpì, n’attesto, e questa buja
     Nube degli occhi, e i sotterranei numi
     (Che infausti in morte a me pur sian, s’io mento),
     Niuna avran del soccorso ira gli dei.