Pagina:Apollonio Rodio - Gli Argonauti, Le Monnier, 1873.djvu/229

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libro iv. 203

     Che gli diè la donzella, all’arbor tolse1
     Le aurate lane; ed ella intanto il capo
     215Alla fera molcea col medicarne,
     Fin che invito Giason di ritornarne
     Le fe’ seco alla nave, e in un con lei
     Fuor del fosco n’uscìa luco di Marte.
     E qual fanciulla della piena luna
     220Che dall’alto le splende entro la stanza,
     Sopra il fino suo peplo accoglie i raggi,
     E mirando il bel lume, il cuor le gode:
     Tal Giason s’allegrava alto levando
     Con sua man l’aurea spoglia, e a lui le bionde
     225Gote e la fronte imporporò di quella
     Il vermiglio fulgor simile a fiamma.
     Quanto il cuojo egli è poi d’una giovenca
     D’un anno nata, o d’una cerva, a cui
     D’Acheinéa dan nome i cacciatori,
     230Quell’aurea pelle era cotanta, e greve
     Per folta lana; e rilucea la terra
     Dinanzi al piè dell’incedente eroe,
     Ed egli or tutto steso la portava
     Giù fino al suol su la sinistra spalla,
     235Or la ripiega per timor che alcuno
     Uom che incontri, o un iddio, non gliela tolga.
Già sulla terra si spandea l’aurora,
     Quando allo stuolo ei giunsero. Stupore
     Prese i Minii al veder la grande spoglia
     240Che lampeggia al balen pari di Giove,

  1. Var. al v. 213. Che Medea gliene diè, tolse dal faggio