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CLXXIX

A MESSER GIOVANNI POLLASTRA

Ne critica i Trionfi e sí scagiona dell’accusa di maldicenza. Il circonspetto nostro messer Tarlato, reverendo amico, di man propria m’ha posto in mano il libro, il quale gli deste, con la mano istessa, perché egli a me lo desse. Io l’ho tenuto tre o quattro di, e hollo trascorso quasi tutto ne la prosa e nel verso. Poi, amonito da la vostra lettra, si sollecita a pregarmi che tosto il vegga e tosto ve lo rimandi. Gliel’ho restituito. E, per venire al suo merito, dico ch’io, che son senza giudizio, non debbo giudicarlo, perché di conscienza, di prudenza e di sperienza vói esser composto il giudice: altrimenti, la colpa de la sua ignoranza pone altrui in publico biasimo. E mi par piú degno il confessar di non intendere che, per mostrar di sapere, infamare altri, giudicando. Pur io, non per sentenzar l’opra vostra, ma per favellarne e perché dite che mi mandate cotal vostra figliuola come a severo zio, sinceramente mi movo a dirvi che lo stile, con il quale avete finita di tessere si grave tela, è sostenuto dai nervi eroici e con l’eroico spirto respira; ma, se voi continuasse la grandezza dei versi, voi non sareste secondo a niuno. Si leggono in cotali Trionfi alcuni terzetti e alti e netti e dolci; poi vengon via gli scropulosi e male intesi. A me non dan noia i vocaboli danteschi negli usati da voi, come sarebbe a dir «perplesso», che anche i buoni ne la lingua latina non usano. Mi par ben nuovo che ne l’ultime sue fatiche un Pollio, uomo dotto, non distingua il nome dal verbo, e, per compiacere a la rima, dica «l’erra» per «gli errori» e «sono» per «sonno», faccendo «relligion» di tre sillabe, cosa che è aspra ad ascoltare e difficile a esprimere. E piú mi maraviglio de la borra, che spesso trovo mescolata con la durezza de le costruzzioni. Io vi amo e, amandovi, voglio piú tosto che mi odiate per dirvi il vero, che mi adoriate dicendovi la bugia.