Pagina:Aretino, Pietro – Il primo libro delle lettere, 1913 – BEIC 1733141.djvu/287

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non osservi la modestia che mi si conviene. Parmi ufficio de la servitú vera il non usare col suo principe negli interessi di Dio l’adulazion falsa. Parmi ancora debito dei credenti in Cristo d’esscrcitar l’ingegno in tutto quello che apporta onore c gloria a la sua religione. E perciò, liberamente e senza passion di parzialitá, mi sono sforzato di movere la Maestá regia a proceder per Giesú, secondo il costume dei suoi predecessori, sperandone laude dal mondo e merito dal cielo. La mia penna non tocca il re vostro per pungnerlo, ma per ispronarlo a consolarci e per grado degli onori suoi. E, quando l’imperadore recusasse ciò che egli non refuta, con simili intercessioni o con piú aspre l’assalirei, perché io son cristiano e non simulatore: oltra ciò, chi piú puote, piú è obligato a piú fare per il battesimo nostro, lo non giudico il torto né il dritto de le due Maestá nel discorso ch’io faccio, anzi tengo la ragion di Domenedio, e, ricordandomi che l’una e l’altra m’ha rallegrato con la cortesia, non sono ingrato né a quella né a questa. Poi è dovere ch’io, che, per vertú d’undici anni che ci vivo, sono acettato per cittadino, favelli in prò de la patria. Cosi Iddio spiri chi disturba la pace universale, come l’intendimento di ciò ch’io dico o scrivo è sincero e verace. Né sono uomo che giornei per le piazze, essaltando con la bava a la bocca aquile e galli, né tento di trar gradi e danari per via di milantare i grandi. So’ ben persona da scontare i debiti dei premi ricevuti col mezzo de la gratitudine stabile e laudabile. Quanto mi preme il core circa la carta, di che fulmina fino a la Mirandola, c la dispiacenza di Vostra Signoria illustrissima, la quale sempre amommi e beneficommi. E, se, quando io la distesi, avessi pensato che a Quella non fusse andata a gusto, non Laverei composta, facendo piú stima de lo sdegno di Vostra Eccellenza, la quale sempre celebrai, che del peccato ch’io commetteva a non iscriverla. Ma sia la penitenza del mal, che vi par ch’io abbia detto, a me parendo dir bene, il non rinfrescare con altra pratica la promessa del gran maestro. E vi bascio le mani.

Di Venezia, il 11 di novembre 1537.