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CCLXXIX

A LA CONTESSA ARGENTINA

[PALAVICINA RANGONA] Invia un sonetto, fatto anni addietro, in lode del re Francesco. Ne continuerebbe a cantar le lodi, ma la mancanza di danari gli ha fatta seccar la gola. Eccovi, signora, quel che seppi dire del re vostro, mentre la Maestá Sua sapea donarmi, lo ho sempre detto e di nuovo ridico ch’io so ricordarmi degli onori dei principi, quando le Loro Eccellcnzie sanno ramentarsi dei miei bisogni. Chi tralascia me insegna a me di tralasciar lui, e chi a me si rivolge mi dá materia di rivolgermi a lui. Si che la va e va. Voi mi potreste allegare il madesi, e io vi potrei allegare il madenò; e cosi siamo patti e pagati. Dicamisi: per che conto debbe cantar un poeta, non volendo altri sonare? Chi è quel capitano si affezionato a la Francia, che voglia servirle per Dominimi nostrum ? — Date a lo dabítur vobis — disse il pedante. Io adorava il re Francesco, ma il non aver io mai argento da lo sbragiar de le sue liberalitá raffreddaria le fornaci di Murano. Si che Vostra Signoria eccellentissima o mi faccia dare del fiato per le trombe de la vertú o mi perdoni s’io non gli grido ad alta voce al nome.

Di Venezia, il 5 di decembre 1537. L’erto, duro e alpestro orrido monte, che malgrado d’Italia andò rompendo l’aceto e’ 1 fuoco d’Anibál tremendo, piaccia al pianeta mio ch’io saglia e smonte. A ciò, gran Sir, che in opre eterne e cónte vi state d’alto desiderio ardendo, vengo adorarvi, i miei voti offerendo al tempio di pietá ch’avete in fronte. Ch’arsi gl’incensi e sacre l’ostie al vero e vivo vostro simulacro, u’ aduna Marte e Minerva il sommo del suo impero, dirò: — Vive uomo e dio sotto la luna sol, senza par; — ché, s’altri vinse altèro gli uomini, voi vinceste la Fortuna.