Pagina:Aretino, Pietro – Il primo libro delle lettere, 1913 – BEIC 1733141.djvu/76

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vita, naturalmente amica de la allegrezza. Ecco lá il corpo sacro de l’ottimo duca: dategli onorato sepolcro; e, procacciato che gli arete quel che si dee a l’anima, ricordatevi che, avendovi egli fatto a sua similitudine, non è lecito che il suo nome resti senza memoria. Ecco me, che non vario per il variar de le prosperitá; e, se bene il grado, nel quale la liberalitá vostra ha posto le mie speranze, mancasse, io non mancarò mai di celebrar tanto lui morto quanto voi vivo, perché il fine de la divozzion, che io ho a Massimiano, non è il premio. Si che io son quel che io era, e mi potino le stelle far misero, ma non bugiardo. Io, per l’ultima mia, piena di tristi augúri, per averci scritto i volubili fini de le cose e come in sul piú bello le pompe si risolvano in nebbia, conchiudendovi la stabilitá degli inchiostri, vi promisi l’opera, e atterrollo. Or datevi pace e, col darvela, ringraziate Cristo che vi ha fatto esser chi voi séte.

Di Venezia, il 25 di novembre 1535.

LVIII

A LA MARCHESA DI BITONTE

Complimenti. A me sta, signora, il rallegrarsi de lo avermi Vostra Eccellenza fatto degno de le lettere sue, e non a lei di quelle che le ho mandate, perché voi lo avete fatto per vostra propria cortesia, e io per mio proprio debito. E perciò la carta di una tanta principessa mi è stata cara quanto la libertá data dal pietoso imperarlo re a quei cristiani che con le membra avevano consumate le catene di Barbaria. Ed essendo resoluto che io vi sono accetto, le scrivo con tanta securtá la seconda volta con quanto timore le scrissi la prima. E le dico che, per essere piú degno il signore che il servo, che io son quello che debbo tenermi de l’aver acquistalo la grazia vostra, e non voi eli aver guadagnata l’afTezzion mia; e da qui manzi di tutti i frutti, che