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AL SIGNOR LUIGI GONZAGA

Per quanto vivamente e dolorosamente colpito dalla morte di Francesco Maria della Rovere, non ha neppur lontanamente pensato ad attribuirla al Gonzaga. Non vi crediate, marchese, che in niun ragionamento la oppenione de la mia conscienza abbia mai concluso il credersi che la sceleratezza, che ha morto non pure il duca d’Urbino, ma la reputazione degli uomini, l’oracolo de la milizia e la grazia del sermone, sia derivata da voi; avenga ch’io non son giudice di tali cause. Potria bene essere che, ne lo intendere il caso del gran Francesco Maria, mi fusse caduto di bocca qualche parola contra un si crudo eccesso: imperoché lo esito de le cose orrende ci si rappresenta con si terribile aspetto, che il senno in quel mentre non sa usare il solito consiglio, anzi, provocato da la iniquitá del fatto, ci offusca la mente nel modo che il tuono ci scuote l’animo. È ben vero che, si come ci ridiamo del rumore che ci fa paura, cosi ci pentiamo del falso che ci fa sparlare. Benché, circa il pregiudizio vostro, la mia lingua è inocente, né disonesterebbe la sinceritá de la sua natura con si malvagia presunzione. Ma che non puote uno uomo pessimo nel deliberarsi di essercitare la sua volontá nefanda sopra la testa d’altri? Certo che egli in quel punto pon da canto il rispetto di Dio e il timor de la giustizia, e, scordatosi in tutto del corpo e de l’anima, non altrimenti adopera che se Iddio e la giustizia non gli potesse nòcere né a l’anima né al corpo. Se accade poi che la severitá di quella e il flagello di questo lo rileghi in carcere, mutata l’audacia in viltade, per essergli piú vicina la corda che la morte, non solo confessa il delitto al cenno del tormento, con isperanza che lo indugio, che si pone tra la colpa e la pena, lo scampi; ma, parendogli che il peccato