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l’essempio di lui si riducessero ne le chiese da cui essi pigliano i titoli, exponendo il divino Verbo a le sue genti ne la maniera che Pietro Paolo, divoto de la Vostra umile Altezza espone in Istria, patria e diocesi di lui, che ha spogliato le sale e le camere episcopali per vestire la sacrestia e la chiesa catedrale, impoverendo la mensa per arichire con tale argento l’altare, dedicando a Dio quel poco che ha saputo procacciarsi la solecitudine de la sua modestia ne la legazione germanica, per sapere che il cielo si compiace ne la bontá dei suoi familiari. Ma, perché egli è servo de la Vostra Signoria illustrissima e reverendissima, a la quale mi inchino, gliene ho fatto motto, acciò se ne rallegri.

Di Vinezia, il 21 di marzo 1539.

CDXXXII

AL PALOGIO

Non mai egli ha sparlato del Palogio, cui vuol bene come a un figliuolo. Io non so, signor Camillo, chi mi abbia piú ingiuriato: o chi vi han referito di me le bugie, o voi che l’avete creduto. Io istimava che mi teneste ben povero di robba, ma non giá vile d’animo. È piú costume de la natura mia il non apprezzare venticinque scudi che incolpare uno amico di ritenermegli. Né vi pensate che, se ben mi avete conosciuto in bisogno di danari, che io mi recassi, per loro, a dire ciò che vi è suto detto da persona, che a me si è sforzato darmelo ad intendere. Eccomi quello, dirò, padre vostro, non con altro core che io me vi offerissi alora che la cortesia di voi mi fece il servigio che mi occorse; per la qual cosa mi vi ficcaste ne l’anima con si affettuosa tenerezza, che mai piú non séte per uscirne. Si che, figliuolo mio, riconciliatevi con la innocenza di chi vi ama quanto amar si puote un dolce e caro gentiluomo, giudicando secondo il merito sopra la condizion di colui che vi ha riportato non solo ciò che non è, ma ciò che non può essere. E, quando