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DIII

A MESSER BARTOLOMEO PANCIATICHI

Racconta le truffe e gl’imbrogli perpetrati a suo danno in Francia da Gian Ambrogio degli Eusebi. Chi non ci nasce con la cortesia ne l’animo, è nobile nel cognome e villano ne le opere. Io dico ciò in lode del vostro meritate di esser veramente chiamato buon gentiluomo, peroché l’aver cura de l’onore e de 1’utile altrui procede da bona gentilezza. Ma, se tuttavia giovate a quelli che non hanno pur accennato di servirvi, che fareste voi inverso di coloro che sempre vi avesser servito? Se la mia penna fusse atta a penetrare ne la memoria dei posteri, la gratitudine de le sue scritture saria pronta negli interessi de la vostra fama come voi séte diligente nel commodo de la mia virtú. Ma, perché io so che il discreto del giudizio vi apre il core ch’io tengo circa il desiderare di essaltarvi, tornarò ad Ambrogio, dicendo ch’io gli imposi che, nel presentare il libro a la serenissima reina di Navarra, usasse il mezzo del Vauselles, e, dandogli una lettra ch’io gli scriveva, dissi: — Non uscire del consiglio de l’uom preclaro. — E siate certo che indugia la risposta de le due mandatemi da le amorevolezze di si dotta persona, per essermi risoluto che il predetto si trasferisse in Francia. E il dolce messer Ruberto di Rossi vi dirá che ancora con voi faceva lo uffizio che debbo. Ma, se la scatenata gioventú di tale ha piú tosto ubbidito a la sua volontá che al mio ordine, vada a conto del danno che io merito, e non de la vergogna, de la qual son fuora per i doveri usati con gli amici e coi maggiori. Ma saria pur grande impero quel di colui che tiene il titolo di padrone, se la sua pacienzia non fusse schiava a la insolenzia dei servitori, anzi dei tiranni de la pace e de la quiete e del pan suo. Ecco: le donne restan di mal fare o per viltá o per