Pagina:Aretino, Pietro – Il secondo libro delle lettere, Vol. I, 1916 – BEIC 1734070.djvu/37

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sé cosa di lode né di menda, che non vi si rappresenti subito a la vista. De la maniera, de la cortesia e de la gentilezza mi taccio, avenga che esse dependano in modo da la nobiltade vostra, che bisogna confessino che tutto quel di grato, di splendido e di signorile, che esse tengono, sia dono de la inclita eleganzia dei vostri costumi candidi e de la vostra creanza pura; onde non fate mai atto, che non mostri parte de la sopraumana condizione che tenete. Intanto chi vi contempla in volto, scorge ne la serenitá de la sua aria la imagine de lo impero, del qual séte dignissima.

Di Vinezia, il io di giugno 1538.

CCCLIII

A MONSIGNOR DA LA BARBA

Dolente di non averlo potuto vedere, come sperava, a Venezia, gli raccomanda per iscritto Francesco Lazioso. Essendo per questa terra, non so come né perché né da chi, sparso nome che Vostra Signoria reverendissima non pur ci dovea venire, ma che di giá ci era giunta, ancor io udii cotal voce, e, udendola, sentii ricercarmi le viscere da la dolcezza di quella umana passione, che ci si rivolge nel petto, quando intendiamo novella o che ci confermi le promesse che si sperano o che ci fa por mano a le cose sperate. Ecco, tosto ch’io tenni per veritá la bugia, aventarmi in barca con una certa ansia d’affetto, che mi vietava, non che altro, il respirare. E, mentre con palpitante core sollecitava di arrivare dove mi credeva che foste, la mia mente, astratta ne la ricordanza di voi, vi si recava dinanzi agli occhi in quella effigie generosa, con cui vi lasciai a lo illustre governo de le genti, che in campo rimasero vedove del magno Giovanni de’ Medici. Intanto chi era meco potè vedere con quali atti e con che gesti io mi movevo, parendomi tuttavia di basciarvi, non la mano con cerimonia