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CCCLVI

AL CARDINAL SANTA FIORE, LEGATO DI BOLOGNA Lodi. Io, con l’umiltá di questa, monsignore illustrissimo, inchino al vostro grado, saluto la vostra fortuna e adoro i vostri meriti; e, perché la statua de le grazie, che vi fanno tale, è da ognun veduta come il lume del sole, anch’io so in che modo la mansuetudine, la gravitá e l’affabilitá vi rende agli uomini e giocondo e amabile e umano. Comprendo anch’io che in voi non è veruna qualitá roza, né veruna azzione pigra. Anch’io conosco che le virtú, che vi adornano, son tutte chiare, tutte magnanime e tutte degne de la gentilezza del vostro inclito sangue. Veramente egli è qualche secolo che il giardino de la natura non produsse arbore, che, quale il vostro, aprisse si tosto fiori e maturasse si tosto frutti ; né fur mai fiori né frutti inanzi al tempo si soavi d’odore né si dolci di sapore. Ma di che pregio saranno essi ne le loro stagioni, valendo tanto fuori de li mesi nostri? Voi sarete, ne la etá debita, quale è oggi il santo avolo vostro, e, reggendo le medesime chiavi, aprirete il cielo e indorarete la terra. Io non fingo la veritá de la vostra lode, al sacro corpo de la quale è spirto la eternitá de la fama; anzi ne favello, per non ingiuriarla tacendone. E, perché saria un tórre lo splendor de la vita a la vita, se lo studio de le parole non glorificasse chi è degno di gloria, perciò io rendo i dovuti onori a voi, che séte grande per la grandissima degnitá e grandissimo per il grande animo, affermando a Vostra Signoria reverendissima che, per avere piú amanti la liberalitá che la bellezza, essendo Quella la istessa cortesia, è diventata idolo de le genti.

Di Veneria, il 15 di giugno 1538.