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DXLVIII

A MESSER FRANCESCO PRISCIANESE

Lietissimo della stima e dell’amicizia che gli dimostra il Priscianese, gli invia la V’ita di santa Caterina , prendendo da ciò occasione per declamare contro l’ipocrisia e l’ignoranza del clero e la decadenza del papato, del quale s’augura una restaurazione, che gli permetterá anche di rivedere i suoi vecchi amici romani. Io, fratello onorando, fino a qui mi son tenuto virtuoso non per altro che per saper d’esser amato da le virtú del Guidiccione, del Molza e del Tolomeo, fiati del decoro, anime de le scienze e spiriti del giudizio. Ma, nel sentire amarmi da voi, che séte il senso de la caritá, lo affetto de la benivolenzia e la vita de l’amicizia, mi tengo buono ancora. E, se ben conosco che l’amor, che mi portate, è per buona oppenione, che vi fa lodare i miei andari (onde non ne son degno, come voi di quel che io vi voglio per vero merito, che mi move a guardare le vostre bontá), piacemi sopra ogni cosa di avervi per testimone di ciò che vi par ch’io sia. Veramente, il venir di voi qui mi fu prescritto dai cieli, la cui providenzia, vedendo che l’opera vostra, piú necessaria a chi vói diventare uomo che non è l’acqua e il fuoco a l’uso degli uomini, non era a tempo a instruire la mia ignoranza, suppli col farvi comprendere come io, che non so piagnere la fortuna mala né dolermi de la povertá pessima, mi vivo mercé di quella libera virtú, che, avenga ch’io moia, faria fede che io non nacqui indarno. Or, per tornare a la composizione comandatami dal marchese del Vasto, magnificenzia de l’umano genere, ecco che io ve la mando, secondo l’obligo de la parola mia; e, mandandovela, vi scongiuro, per quello affetto che ci ha legati insieme con la catena de la eterna fratellanza, a voler mostrarla a Ravenna e a Ridolfi, cardinali senza menda e signori senza avarizia. Peroché mi basta che la lor clemenza biasimi la vergogna de la fiamma, che non