Pagina:Aretino, Pietro – Il secondo libro delle lettere, Vol. II, 1916 – BEIC 1734657.djvu/158

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DCLXXV 1 I A MESSER NOFRI CAM AI ANI È saggezza biasimare, non lodare, se stesso. Egli è vero, o figliuolo, che io, in qualunche cosa mi venga a proposito accuso la condizion del poco ingegno che mi credo avere; onde non séte il primo tra quegli che mi amano a dolervene, parendovi forse che io sia ciò che bisognaria ch’io fusse, e, in cotal parervi, con certo modo tacito venite a dubitar del mio senno. Ancora ch’io sappi che non è men pazzia il biasimarsi che arroganza il lodarsi, voglio piú tosto esser tenuto stolto sprezzandomi che superbo vantandomi ; avenga che cotal vilipendio è simile a la prodigaiitade, la quale, per accostarsi piú a la liberalitá che l’avarizia, non è in tutto vizio. Benché, senza altra ragione, io, nel cosi tenermi, son sempre per ritrarne onore nel saputo giudizio dei buoni. Conciosiaché io so niente o so qualche cosa. Se io so niente, chi udirá confessarmelo, dirá: — Costui si conobbe; — se io so qualche cosa e lo nieghi, chi il notará bene, mi chiamerá modesto. Di Vinezia, il io d’aprile 1542DCI.XXVIII AL SERLIO ARCHITETTO Non ha mai ricevute le lettere che il Serlio dice di avergli scritte. Lo esorta a ritornare in patria, giacché in Francia un artista non ha troppo da guadagnare, a causa, non giá del re Francesco, che sarebbe generoso, ma della sua avarissima corte. Ne le scritte al compar Tiziano e ne le indrizzate al compar Marcolino ho inteso come voi, compar caro, vi dolete del mio non aver mai risposto a piu lettre mandatemi, allegando il saper certo ch’io l’ho ricevute. De la cui credenza toglietevi giuso,