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226 elegia settima.

6Quante lampade ha il ciel teco condotte.
     Tu che di sì gran luce altera vai,
Quando al tuo pastorel nuda scendesti,
9Luna, io non so s’avevi tanti rai.
     Rimémbrati il piacer che allora avesti
D’abbracciar il tuo amante, ed altro tanto1
12Conosci che mi turbi e mi molesti.
     Ah non fu però il tuo, non fu già quanto
Sarebbe il mio; se non è falso quello
15Di che il tuo Endimïon si dona vanto:
     Che non amor, ma la mercè d’un vello
Che di candida lana egli t’offerse,
18Lo fe parer agli occhi tuoi sì bello.
     Ma se fu amor che il freddo cor ti aperse,
E non brutta avarizia, com’è fama,
21Leva le luci ai miei desiri avverse.
     Chi ha provato amor, scoprir non brama
Suoi dolci furti; chè non d’altra offesa
24Più che di questa, amante si richiama.
     Oh che letizia m’è per te contesa!
Non è assai che madonna mesi ed anni
27L’ha fra speme e timor fin qui sospesa?
     Oh qual di ristorar tutti i miei danni,
Oh quanta occasïone ora mi vieti,
30Che per fuggire ha già spiegato i vanni!
     Ma scopri pur finestre, usci e pareti;
Non avrà forza il tuo bastardo2 lume,
33Che possa altrui scoprir nostri secreti.
     O incivile e barbaro costume!
Ire a quest’ora il popolo per via,
36Che dee ritrarsi alle quïete piume.
     Questa licenza solo esser dovría
Agli amanti concessa, e proibita
39A qualunque d’Amor servo non sia.
     O dolce sonno, i miei desiri aita!
Questi Lincei,3 questi Arghi c’ho d’intorno,


  1. Così legge ancora il Barotti.
  2. Lucrezio e Catullo: «Lunaque sive notho fertur loca lumine lustrans;» — «Tu potens Trivia, et notho es Dicta lumine Luna
  3. Narrano le favole, che Linceo figlio di Nettuno avease tanta perspicacità d’occhi, che penetrasse con la vista sotterra e vedéssevi le cose nascoste. — (Rolli.)