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sonetti. 295

Sonetto VI.


     La rete fu di queste fila d’oro,1
In che il mio pensier vago intricò l’ale,
E queste ciglia l’arco, e ’l guardo strale,
4E ’l feritor questi begli occhi fôro.
     Io son ferito, io son prigion per loro;
La piaga è in mezzo il cor aspra e mortale;
La prigion forte: e pur, in tanto male,
8E chi ferimmi e chi mi prese adoro.
     Per la dolce cagion del languir mio,
O del morir, se potrà tanto il duolo,
11Languendo godo e di morir disio;
     Pur ch’ella, non sapendo il piacer ch’io
Del languir m’abbia o del morir, d’un solo
14Sospir mi degni, o d’altro affetto pio.


Sonetto VII.


     Com’esser può che degnamente lodi
Vostre bellezze angeliche e divine,
Se mi par ch’a dir sol del biondo crine
4Volga la lingua inettamente e snodi?
     Quelli alti stili e quelli dolci modi
Non basterían, che già greche e latine
Scôle insegnaro, a dir il mezzo e il fine
8D’ogni lor loda agli aurei crespi nodi.
     Il mirar quanto sian lucide, e quanto
Lunghe ed ugual le ricche fila d’oro,
11Materia potrian dar d’eterno canto
     Deh morso avess’io, com’Ascréo, l’alloro!2
Di queste, se non d’altre, direi tanto,
14Che morrei cigno, ove tacendo io moro.


  1. Il Baruffaldi crede questo e il seguente Sonetto, con altri ancora, allusivi alla bionda e bella chioma di Alessandra Benucci.
  2. Vedi la nota al v. 138 della Satira VII.