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elegie. 445

     Son cocenti desir quel fuoco che ardi:
La polvere rimbomba in tuon di lutto,
27E di sospir pungenti più che dardi.
     Provido antiveder, sagace, instrutto,
Son poi la munizion che d’ora in ora
30Veglia, e non lascia ai nemici trar frutto.
     Gl’inimici, lo assedio ch’è di fuora,
Son gelosía, timore, odio, disdegno,
33Disprezzo, crudeltà, lunga dimora.
     Ma tutte le lor forze e lor disegno
È in tagliar d’acqua e in batter d’adamante,
36Che troppo è il castellan provvido e degno.
     Dunque, con quel pensier fermo e costante
Che incominciai la mia amorosa guerra,
39Con quel seguiterò la impresa innante;
     Chè una rôcca di fè mai non si atterra.




II.


     Poich’io non posso con mia man toccarte,
Nè dirti a bocca il dolor che mi accôra,
3Tel voglio noto far con penna e carte.
     Doglioso e mesto, pien d’affanni ogn’ora,
Meno mia vita afflitta e sconsolata
6Dal dì che, mal per me, tu andasti fuora.
     Chiamo la morte, e lei non viene, ingrata!
A finir il dolor ch’io porto e sento
9Per non poter saper la tua tornata.
     Tu festeggi in piacere, ed io tormento,
Privo di te, che notte e dì ti chiamo:
12Però di ritornar non esser lento.
     Tu m’hai pur preso come pesce all’amo,
Misero me! ch’io son condotto1 a tanto,
15Ch’altro che te non voglio, apprezzo e bramo.
     Tu vivi lieto, ed in me abbonda il pianto:


  1. Questo amoroso lamento non pare scritto per una donna, nè a nome di una donna; e per questa cagione ancora non può giudicarsi fattura del buon Lodovico. Scorretta è certamente la chiusa, ove trovasi ripetuto, e senza dare alcun senso, il verbo veggio: ma il Barotti non a torto scriveva che queste composizioni «non meritano che s’impieghi un solo momento in emendarle.»
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