Pagina:Ariosto - Orlando furioso, secondo la stampa del 1532, Roma 1913.djvu/9

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PREFAZIONE




Sul finire del giugno 1525 Ludovico Ariosto, in compagnia del figliolo Virginio, tornava da Castelnuovo di Garfagnana in Ferrara, ormai libero dalle brighe moleste del commissariato, che fin dal febbraio 1522 s’era indotto ad accettare per angustie economiche e che aveva esercitato con zelo e con giustizia. Tornava, dopo aver rifiutato l’ufficio d’oratore presso il papa Clemente VII, che Alfonso I voleva affidargli quasi a ricompensa dei servigi resi, e si proponeva nella quiete propizia della bella città dei duchi darsi di nuovo agli ozi delle muse. In vero il periodo dei tre anni, trascorsi fra il turbolento gregge garfagnino1, era stato per lui quanto mai penoso; e per le cure della politica aveva trascurato i diletti studi delle lettere, tanto che, scrivendo nel 1523 al cugino Sigismondo Malegucci, paragonava sé all’uccello che molti giorni resta senza cantare, quando muta gabbia, e affermava che soltanto allora, dopo un lungo tempo di sosta, riprendeva a comporre in versi:

          E questo in tanto tempo è il primo motto,
          Ch’io fo alle dee, che guardano la pianta,
          Delle cui fronde io fui già così ghiotto2.

Non portò a termine tuttavia che qualche satira o qualche lirica a sfogare con gli amici lontani l’animo oppresso; ma non ebbe certa-

  1. Satire di L. Ariosto, Sat. V, 8.
  2. Satire di L. Ariosto, Sat. V, 13-15.